Sindrome da fatica cronica nel dipendente ospedaliero, risarcimento del danno e cambio della mansione lavorativa

Sindrome da fatica cronica nel dipendente ospedaliero, risarcimento del danno e cambio della mansione lavorativa
(Cassazione civile sez. lavoro, sentenza 6.8.2014 n. 17693)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VIDIRI Guido – Presidente – Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere – Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere – Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere – Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 7190/2008 proposto da: AZIENDA OSPEDALIERA “CARLO POMA” C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato SIVIERI Orlando, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANOLIO PAOLO, giusta delega in atti; – ricorrente – contro F.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato VESCI Gerardo, che la rappresenta e difende giusta delega in atti; – controricorrente – avverso la sentenza n. 465/2007 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 04/12/2007 r.g.n. 389/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/04/2014 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO; uditi gli Avvocati SIVIERI ORLANDO e GIANOLIO PAOLO; udito l’Avvocato VESCI GERARDO; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DOTT. CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 4.12.2007, in riforma della decisione del Tribunale di Mantova, condannava l’Azienda Ospedaliere Carlo Poma di (OMISSIS) al risarcimento del danno biologico in favore di F.D., per l’aggravamento del grado di invalidità dal 35 al 50%, riconosciuto alla predetta dalla competente commissione sanitaria il 10.12.1998, imputabile alla condotta negligente del datore di lavoro che aveva violato il disposto dell’art. 2087 c.c., danno quantificato in Euro 59.758,46, oltre accessori dal luglio 2003.

Rilevava che erano presenti artralgie senza obiettività di artrite e febbricola, nonchè un rilevante disagio psicologico tipico di pazienti affetti da patologia cronica e che la natura della sindrome che affliggeva la F. evidenziava la possibilità di un’utile sistemazione della stessa nel centro di prenotazione di prestazioni e visite ambulatoriali, quanto al nesso causale ritenendo che il lavoro impegnativo e stressante aveva avuto un ruolo nel determinismo della C.F.S. – sindrome della fatica cronica -, anche non potendo essere lo stesso considerato l’unico agente causale. Il danno biologico conseguente era quantificato nel 20%, misura non contestata dalle parti.

Osservava la Corte che la F. aveva provato la patologia contratta e la sua genesi anche lavorativa, sicchè, secondo i principi regolanti l’onere della prova, competeva all’Ospedale fornire la prova del fatto interruttivo del nesso causale, trovando applicazione q i principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., della equivalenza causale, secondo cui era causa di un evento ogni condizione indispensabile al suo verificarsi, e dovendo riconoscersi efficacia causale a ciascuna causa anche se di minore spessore quantitativo o qualitativo rispetto alle altre, salvo che la causa sopravvenuta fosse stata da sola sufficiente a determinare l’evento.

Nel caso di malattia multifattoriale la Cassazione aveva ritenuto che la malattia di natura professionale assumesse rilievo di concausa della invalidità non solo quando vi fosse la prova della sua efficacia causale diretta, ma anche quando il fattore lavorativo avesse inciso in termini di rilevante probabilità sulla riduzione della capacità lavorativa, mentre non aveva rilievo la maggiore o minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine extraprofessionale.

Per la cassazione della decisione ricorre l’azienda Ospedaliera, affidando l’impugnazione ad unico motivo, illustrato nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste, con controricorso, la F..

Diritto

L’azienda ospedaliera ricorrente denunzia falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e artt. 40 e 41 c.p., nonchè difetto assoluto di motivazione e travisamento dei fatti, osservando che era incontestabile che l’Azienda, senza alcun ritardo, aveva assecondato l’iniziale richiesta della F. di essere adibita al servizio ambulatoriale di endoscopia ed in seguito ai poliambulatori ovvero a servizi ritenuti dalla stessa lavoratrice compatibili con il proprio stato di salute e che, per oltre dieci anni da tale assegnazione, la stessa non aveva mai eccepito alcunchè in merito alle funzioni cui era stata assegnata, nè aveva mai comunicato all’azienda difficoltà conseguenti al suo stato di salute, che tali funzioni e mansioni erano perfettamente compatibili con lo stato di salute, come comprovato dal contenuto dei referti (OMISSIS) del Servizio di Protezione e Prevenzione Servizio di Sorveglianza rilasciati dopo approfondite indagini cliniche, e che i certificati in questione non erano stati impugnati con le modalità stabilite dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 17, comma 4. Inoltre, l’azienda aveva sempre rispettato le prescrizioni dettate dal medico del lavoro, evitando di adibire la F. a servizi caratterizzati da mansioni comportanti la movimentazione di carichi pesanti o la stazione eretta, posto che i reparti cui era stata addetta ospitavano solo pazienti autosufficienti, e che l’azienda aveva adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire alla dipendente lo svolgimento dell’attività lavorativa nel rispetto delle sue condizioni di salute. Deduce la ricorrente che pertanto non le poteva essere imputata a nessun titolo alcuna responsabilità nella determinazione della patologia di stanchezza cronica lamentata dalla F. e che la stessa c.t.u. espletata si limitava ad accertare che ogni attività lavorativa – e non solo quella specifica svolta -, in quanto potenzialmente generatrice di stress, poteva rendere manifesta la suddetta sindrome.

Aggiunge l’Azienda che art. 2087 c.c., configura un’obbligazione di mezzi, sicchè il datore di lavoro non può considerarsi responsabile nella determinazione di un evento dannoso a carico del lavoratore quando provi di avere adottato tutte le misure cautelari idonee e, quindi, di avere agito con la diligenza, prudenza e accortezza necessarie ad evitare che dal proprio comportamento derivi un nocumento al lavoratore. Nella specie l’Azienda aveva ottemperato alle regole comportamentali sancite dall’art. 2087 c.c., avendo sempre adibito la F. a mansioni compatibili con il suo stato di salute e con le prescrizioni di volta in volta emanate dai vari organismi medico collegiali, laddove il fattore lavorativo in generale era stato ritenuto capace di contribuire a rendere manifesta la patologia.

Il ricorso è infondato.

Deve, preliminarmente, rilevarsi che il quesito posto a conclusione della parte argomentativa del motivo non è formulato correttamente, in quanto con lo stesso si domanda se il datore di lavoro possa essere ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 2087 c.c. e artt. 40 e 41 c.p.c., laddove risulti comprovata l’adozione di tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, atte a garantire la salute del lavoratore, sul solo presupposto che il fattore lavorativo, in quanto situazione stressante, possa contribuire a rendere manifesta la patologia stessa.

Ed invero, ancorchè si denunci la violazione di norme di diritto da parte della Corte territoriale, la relativa censura, articolata sotto diversi profili, attiene in realtà alla motivazione della sentenza, tentandosi con la stessa una rivisitazione delle risultanze istruttorie non consentita in questa sede di legittimità. La ricostruzione del giudice del merito viene infatti valutata come carente in quanto non avrebbe attribuito i significati ritenuti dalla ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle risultanze di causa, anzichè quelli di fatto da esse tratti, ed avrebbe ritenuto erroneamente sufficiente a fondare la decisione di accoglimento della domanda della lavoratrice l’accertata rilevanza del fattore stressante lavorativo, rispetto al quale non era evidenziatale alcun elemento concausale sopravvenuto sufficiente in modo autonomo nel determinismo causale del dedotto aggravamento della sindrome sofferta.

Comprova del fatto che il motivo non attiene propriamente alla violazione di legge si rinviene, come già detto, nell’analisi del contenuto del quesito con il quale esso si conclude, che si risolve nel caso di specie nella mera istanza di una decisione in ordine alla esistenza della regula iuris da applicare nel tipo di giudizi cui è riconducibile quello censurato.

Viceversa, il quesito di diritto deve essere formulato in maniera tale che la Corte di legittimità possa comprendere dalla lettura dello stesso, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito nel caso in esame e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (cfr. Cass. S.U. 14 febbraio 2008 n. 3515 e Cass. 21 aprile 2009 n. 9477). Nel caso in esame l’esistenza di una erronea regula iuris applicata dai giudici è meramente presupposta e la sua affermazione appare unicamente funzionale a censurare i modi con i quali la Corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove e quindi ad una valutazione di fatto, costituente il reale oggetto del motivo di ricorso.

I principi giurisprudenziali costanti e consolidati affermati in materia risultano, al contrario correttamente applicati.

Come, invero, sottolineato più volte dalla giurisprudenza di questa Corte, qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c., cosicchè grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa” (cfr. Cass. 17 marzo 2009 n. 6454, Cass. 7 novembre 2007 n. 23162, Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184; nello stesso senso, 5 marzo 2002, n. 3162; 7 novembre 2000, n. 14469; 5 febbraio 2000, n. 1307). Quando dunque risulti accertato che l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, deve ritenersi responsabile il datore di lavoro che non abbia adottato le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del dipendente, sempre che risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli.

Perciò il lavoratore che chiede un risarcimento ai sensi dell’art. 2087 c.c., deve provare innanzi tutto l’esistenza di un nesso di causalità tra la prestazione lavorativa e la malattia dedotta.

Solo allora, in caso positivo, il datore di lavoro dovrà provare di avere fatto tutto quanto necessario per evitare l’insorgenza dell’affezione, ed, eventualmente, l’aggravamento di essa.

Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, che lo ha dimostrato attraverso una motivazione puntuale, completa e convincente partendo dalle risultanze peritali, nel caso di specie la lavoratrice ha provato l’esistenza di un nesso di causalità tra l’evento dannoso e lo svolgimento della prestazione lavorativa e, di conseguenza, il datore di lavoro era tenuto a fornire la prova liberatoria di avere ottemperato all’obbligo di protezione. La derivazione causale dell’aggravamento dell’invalidità lamentato dalla F. dalle condizioni di lavoro è fondato sulla corretta applicazione del principio delle concause e della mancanza di una causa autonoma avente valore interruttivo, e nel caso considerato è stato escluso, per affermarne la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c., che il datore avesse provato di avere adottato le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica della lavoratrice, posto che in caso di malattia multifattoriale – come deve ritenersi la C.G.S. da cui la stessa era affetta – il fattore lavorativo deve ritenersi assumere ruolo concausale della invalidità anche quando abbia inciso in termini di rilevante probabilità sulla riduzione della capacità lavorativa. Nella specie, rispetto ai fattori predisponenti della patologia, sono stati indicati come fattori precipitanti lo stress fisico e psichico, che fungono da “trigger” della malattia.

Orbene, pure avendo la ricorrente fatto richiamo alle conclusioni dell’espletata c.t.u. secondo cui asseritamente ogni attività lavorativa poteva rendere manifesta la sindrome da cui era risultata affetta – in supposto contrasto con l’assunto secondo cui il disagio psichico riscontrato era imputabile alla concreta situazione lavorativa, anche se in concorso con concause non professionali – il richiamo alla consulenza e agli altri documenti non è sufficiente a scalfire l’impianto motivazionale della pronuncia, non essendo gli stessi allegati al ricorso ed essendone riportati soltanto alcuni stralci. Occorre invero che gli specifici dati della controversia, dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano indicati in conformità al principio dell’autosufficienza dei motivi di ricorso ed autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (cfr., in proposito, Cass. 21 aprile 2009 n. 9477, Cass. 21 novembre 2006 n. 24744 e Cass. 3 agosto 2007 n. 17076).

Ciò premesso in via di principio, va dato atto che la Corte d’appello di Brescia, valutando l’intero materiale probatorio acquisito, valorizzando i significati da esso provenienti e ritenuti come quelli che meglio rappresentino o siano indicativi della realtà versata in giudizio, ha ritenuto causalmente collegabile all’impegno lavorativo, incompatibile con le condizioni psico-fisiche della F., il pregiudizio da quest’ultima subito.

Alla stregua delle svolte considerazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della azienda ospedaliere ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2014

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